Sine è uno dei giudici dell’ExtraBeat contest di Soundreef e Quadraro Basement, ma è anche e soprattutto uno dei producer più apprezzati e rispettati della scena rap italiana. Una stima che lo ha portato nel corso degli anni a produrre basi per tanti tra i nomi più noti del rap game italiano.
Sarai uno dei giudici del contest da cui usciranno 5 vincitori, ma sarai anche e soprattutto l’unico che deciderà chi avrà un tuo beat per realizzare un ulteriore brano. Si tratta di una base che hai già selezionato o la andrai a creare dopo aver deciso chi è l’artista che ti ispira di più?
La seconda. Non c’è un beat messo in palio, perché quella sarebbe un’operazione diversa da quella che vogliamo fare. Sceglierò qualcuno, ovviamente in base al mio gusto, dovrà essere qualcuno con cui sono certo di poter fare una produzione da zero, e che venga una roba figa ovviamente.
Quali potrebbero essere le caratteristiche del rapper che sceglierai?
Principalmente vorrei sentire qualcosa di fresco, e soprattutto che abbia personalità, non la solita copia della copia della copia, può sembrare scontata come cosa ma va ribadito. Cerco anche la versatilità, vorrei sentire della roba anche più strana, detto tra virgolette, di quella che va adesso, che però sia fresca. Sicuramente nulla di trito e ritrito, roba che ci tenga sul pezzo. Ormai sono nella terza età del rap e vorrei sempre avere spunti dai più giovani.
Sono tanti anni che produci, hai collaborato con tantissimi nomi grossi della scena italiana. I due a cui vieni più spesso associato sono Noyz Narcos e Coez, ma hai collaborato con chiunque. Quale artista, tra quelli con cui hai avuto modo di lavorare, consideri il più “azzeccato” per le tue produzioni? Mentre tra quelli con cui non hai lavorato – o con cui hai lavorato poco – c’è qualcuno con cui avresti fare più cose?
Se parliamo di quelli con cui ho lavorato bisogna dire che sono sempre state collaborazioni spontanee, mai cose fotte a tavolino, o messe insieme da un’etichetta. Tu hai citato Noyz e Coez, che sono persone che conosco da quasi vent’anni. In entrambi i casi posso dire che abbiamo proprio iniziato assieme, sono due casi a sé.
Se parliamo di gente con cui ho lavorato poco con cui avrei voluto fare di più, i primi che mi vengono in mente sono sicuramente Marracash, Gué Pequeno e tutto il giro Dogo Gang. Dieci anni fa, quando iniziavo ad avere un bel riscontro, l’asse Milano-Roma non era ancora così consolidato, non era così scontato collaborare da città a città. È capitato di lavorare insieme, ad esempio nei dischi di Noyz, ma mi sarebbe piaciuto portare avanti dei progetti più corposi.
Anche a me da ascoltatore sarebbe piaciuto parecchio
Mai dire mai, siamo tutti in attività per fortuna!
Quale pensi che sia, ammesso che esista, una caratteristica del tuo stile di produzione che ti ha reso distinguibile nel panorama italiano?
C’è stato un momento all’inizio in cui ho puntato un suono americano come riferimento. Mi sono messo lì a cercare di capirlo e l’ho fatto diventare mio, senza fare la copia della copia. Era un tipo di suono molto aggressivo, scuro, ma molto hip hop, se volgiamo dirla così. In quel periodo c’era anche poca concorrenza in Italia, nessuno lo faceva come me. Tutti provavano ancora a fare rap classico, oppure provavano a fare lo step verso robe più pop e commerciali, detto in senso buono. Mentre quello che facevo io non lo faceva quasi nessuno. Questo discorso, assieme alle collaborazioni con determinati artisti, che poi sono diventati quello che sono diventati, ha fatto sì che riuscissi distinguermi e ritagliarmi uno spazio mio.
Negli ultimi anni il mondo della produzione in ambito hip hop è stato stravolto. Un tempo le produzioni erano incentrate sull’utilizzo massiccio del campione, che poteva essere stravolto o meno, ma rimaneva il cuore del beat. Oggi spesso i beat vengono prodotti dall’inizio alla fine. In questo discorso come ti collochi?
Ma guarda ormai per quanto mi riguarda non c’è una regola. Io ho sempre fatto entrambe le cose, tanti campioni e tante cose suonate, sia con i synth che con gli strumenti reali. Oggi per quanto mi riguarda dipende dal momento, dal tipo di roba su cui sto lavorando, non c’è una regola fissa, ma penso che sia un bene.
Recentemente c’è stata una discussione sulla scala dell’auto-tune nel pezzo ‘Auto Blu’ di Shiva, una rivisitazione di ‘Blue’ degli Eiffel 65. Al di là delle polemiche sul brano in sé, sulla scala sbagliata o meno, ne è scaturita una discussione sull’utilizzo di campioni e sonorità italodance nel rap italiano. C’è chi, come Salmo, ha parlato di un qualcosa che può conferire originalità e distinguibiltà al rap italiano, e chi invece, come Axos, ha parlato di un utilizzo troppo facile, che rende questi nuovi brani più simili a delle cover. In altre parole, per la serie ‘ti piace vincere facile’, si sfrutterebbe semplicemente il successo di hit consolidate per farne delle nuove. Che ne pensi?
Intanto proviamo a settare la scala del tune giusta e un po’ di polemiche ce le risparmiamo. Ma detto questo, siamo andati talmente avanti in tutto che – devo essere onesto – a me di questo discorso non me ne frega un cazzo. Non mi interessa proprio il discorso sul giusto metodo… mi sembra un po’ fine a se stesso. Ribadisco quello che ho detto sui samples, per quanto mi riguarda conta solo il risultato. Se viene una cosa figa puoi farla anche con le pentole, anzi ci sono dei pezzi che sono stati fatti con le pentole che non sono male. Voglio sentire una cosa che mi piaccia, come viene fatta non è rilevante. La scala del tune è un po’ più rilevante, però forse solo per le mie orecchie, magari per l’ascoltatore medio no.
Un tempo i producer in ambito hip hop erano messi in secondo do piano rispetto ai rapper. Oggi non è più così, penso a Charlie Charles, Sick Luke, Night Skinny. Cosa è cambiato? Perché viene riconosciuto di più il ruolo del beatmaker. Ti passa mai per la testa l’idea di fare un disco da Producer?
Bah guarda, fossi stato convinto di farla l’avrei già fatta questa cosa. Diciamo che ora come ora mi sembra il momento più sbagliato, anche alla luce della nuova popolarità dei producer che, come dici, in alcuni casi ormai sono famosi quasi quanto i rapper. Il disco del producer sta diventando una cosa che tutti vogliono fare. E quando una cosa vogliono farla tutti stai sicuro che io non voglio farla più.
Una curiosità su un beat che hai prodotto, forse il tuo più popolare, un mega-classico del rap italiano, ovvero M3. È nato prima il beat e poi il pezzo? O lo avete concepito insieme a Noyz?
Era il periodo che stavo cominciando a buttare giù delle idee per il disco di Noyz (Guilty, ndr). La cosa principale da dire di quel pezzo è che io il beat non glielo volevo neanche dare, perché all’inizio non mi piaceva.
Non mi sembrava una cosa adatta a lui, mi ricordo che un giorno glielo feci sentire così, in mezzo a tante altre cose che reputavo molto più adatte al suo album. Misi play dicendo qualcosa tipo “Va beh c’ho anche questo, ma non credo che ti piacerà”. E invece non ci avevo capito niente, come accaduto anche altre volte (ride, ndr). Quel beat era uno scarto.
Ma pensa te. Quel pezzo fu una mega hit, da subito. Me lo ricordo bene perché a quei tempi non era come ora, i social non erano così sviluppati, quindi le notizie e le nuove uscite te le dovevi andare a cercare. Ma non il giorno che uscì M3, quel giorno se seguivi anche solo vagamente il rap non potevi non venire a conoscenza di quel pezzo, ne parlava chiunque.
C’era un forum a quel tempo, era il periodo di Natale, mi ricordo che andai a controllarlo e c’erano una valanga di commenti impazziti per il video che era uscito su YouTube. Poi tutto quel disco andò bene in tutta Italia, il primo mezzo successo underground, senza etichette e senza niente. Ma ci ha portato a Milano a firmare un contratto di distribuzione, fu fondamentale anche a livello di contatti.
Quando hai iniziato tu non esisteva la possibilità di fare tanti soldi con il rap, chi lo faceva lo faceva sicuramente per passione. Oggi molti giovanissimi la vedono un po’ come provare a fare il calciatore…
Il numero di persone che provano a fare questa roba oggi è cento volte quello di qualche anno fa, se non mille. Ovviamente tra quei mille c’è di tutto: chi comincia perché ama la musica, chi perché è depresso, chi perché ha il mito del rapper famoso, quindi pensa di poter fare i soldi e avere visibilità e tanti followers, che poi avere tanti followers non equivale necessariamente a fare tanti soldi, questo è un concetto che non è chiaro a molti.
Quando eravamo pischelli noi cominciavi per passione, perché volevi una valvola di sfogo, al massimo alzare qualche soldo con i concerti, e fondamentalmente perché eri in fissa con questo mondo. Io però credo che quella componente di gente che lo fa per passione ci sia ancora, anche se si è aggiunta la gente che la vede un po’ come andare a Uomini & Donne, ma ultimamente sto iniziando a seguire tanti giovani, e devo dire che c’è ancora un sacco di gente che lo fa perché va in fissa, perché ha talento e perché gli viene naturale.
Grazie Sine e Lorenzo Spigarelli di Mondorap per l’intervista!
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