Abbiamo il piacere di scambiare qualche parola sullo stato della musica dal vivo in Italia con Paolo Mei, giornalista, musicista e fondatore di Rocketta, premiata da Italian Embassy al Meeting delle Etichette Indipendenti di Faenza del 2010.
Rocketta è un circuito, un roster artistico, una rassegna
itinerante di musica dal vivo, un programma radio, una web tv, una passerella
per nuove realtà ed artisti affermati, ma soprattutto un insieme di persone
accomunate dalla passione per la musica dal vivo inedita.
Ciao Paolo, quale ti sembra la situazione dei live club oggi
in Italia? Come funziona il circuito della musica dl vivo?
Beh, dire che la situazione dei live club in Italia non goda di
ottima salute credo sia non poco scontata. La musica in generale, in Italia,
non fa altro che lanciare continui segnali d’allarme. Complici una serie di
fattori: il social network, che limita la conoscenza di un artista al semplice
ascolto da un link che appare in home e per la durata di meno di un minuto; i
talent show, che hanno ormai rimpiazzato qualunque programma tv musicale, mostrando
un’altra via (falsa) per raggiungere il traguardo o diventare un “artista”; le
tribute band (oggi, forse, leggermente in calo rispetto a poco tempo fa), di
facile intrattenimento e complici di un ascolto pigro e privo di curiosità. Il
risultato è che viene meno la ricerca, la curiosità di andare a vedere il
concerto di un artista sconosciuto. Un segnale chiaro è la perdita della
“fascia di mezzo”, ovvero di quei concerti che hanno un budget compreso tra le
400 euro e le 2.000 euro (o più). Quei concerti insomma che richiedono un
minimo di biglietto d’ingresso per far fronte alle spese. Ma il pubblico, già
decimato dalla mancanza di ricambio generazionale (i giovanissimi, o buona
parte di essi, non vanno ai concerti), trova quasi offensivo dover pagare 3, 5
o 7 euro per assistere ad un concerto di un artista non (o poco) conosciuto.
Ciò mette in ginocchio soprattutto quei live club con una capienza media. Ma mette
in difficoltà anche i live club con una capienza maggiore, poiché la scelta
artistica (che spesso si limita alle solite band note italiane) è a dir poco
stagnante. Probabilmente per i motivi di cui sopra. Da qui la necessità sempre
più forte di creare rete ed ammortizzare i costi. Ciò che si riscontra invece
con le location più piccole, in molti casi, è che c’è (per fortuna) ancora
voglia di musica dal vivo di qualità. E qui gioca un ruolo fondamentale la
gestione artistica. Il piccolo live club, oltre ad intrattenere, deve essere
innanzitutto “educatore”. E per far ciò, ahimè, è inevitabile il rischio. Ma
sono sempre stato del parere che la qualità, sulla lunga distanza, ripaghi.
Ti interfacci spesso con organizzatori e gestori di locali.
Quali sono le loro principali problematiche?
Le difficoltà sono un po’ le stesse appena elencate. A queste si
aggiungono la SIAE, che in alcuni casi (prendiamo ad esempio le zone balneari
in estate a Catania, dove vivo) equivale quasi al cachet della band stessa (tra
quelle appartenenti alla fascia più bassa), i problemi di vicinato e pertanto
di volumi (sono sempre meno i locali dov’è possibile ospitare band rock) e la
poca tolleranza (e assente supporto) da parte delle istituzioni.
Come scegli di solito le band con cui lavori? Parti sempre
dal gusto personale o ci possono essere altre motivazioni che influiscono sulle
tue scelte?
Parto sempre dal gusto personale. La fase del talent scouting è
quella che mi emoziona di più, che mi fa apprezzare questo lavoro, che mi da
forti stimoli, oltre al buon esito di un concerto, quando il gestore di un
locale mi manda un sms in piena notte per ringraziarmi dello splendido concerto.
Il desiderio di condividere con altri ciò che hai scoperto e che apprezzi. La
musica è passione e condivisione. Ciò non significa però che non ci siano casi
in cui mi rendo conto della difficoltà alla quale andrei incontro nel proporla
e allora rinuncio. Curare ad esempio una band siciliana richiede un impegno
enorme e assai complicato, per ovvie ragioni logistiche.
Quali sono secondo te gli step fondamentali di cui deve
tenere conto un buon booking? Quali invece le attività più importanti che deve
fare un management?
Credo che un buon booking debba innanzitutto credere nei propri
artisti ed apprezzarne la musica. Ma ci sono anche altri punti fondamentali:
comprendere le difficoltà di una “giovane” band e le spese che deve affrontare
(quindi elasticità sulla propria percentuale d’agenzia, ad esempio, evitando al
contempo tappe eccessivamente distanti tra un concerto e l’altro e creando
itinerari quanto più comodi e razionali dal punto di vista geografico), fargli
sentire il proprio supporto in maniera presente. E per quel che concerne il
rapporto con i live club tenere conto di vari aspetti come la capienza, i costi
(se alloggio in b&b o appartamento privato), il contesto in cui si ritrova.
Credo che l’esito di un concerto (mi riferisco non solo nella riuscita, ma
anche nel risultato economico per il live club) debba essere di forte interesse
per il booking stesso. Sono solito ad avere rapporti lavorativi costanti e
duraturi con quasi tutte le location con cui collaboro. Perché al di la del
gusto comune, cerco di mettere il locale (gestore o organizzatore) nelle
condizioni di non “dissanguarsi”. Di portare avanti insieme un progetto.
Le attività più importanti per un management, di certo la ricerca della giusta
“veste” per la band: un buon ufficio stampa (oggi cosa fondamentale),
un’etichetta che possa avere dei canoni vicini alla band e tanti consigli.
Quali sono le tre band italiane, che hai visto dal vivo
ultimamente, che ti hanno impressionato di più?
Mi sentirei di scegliere tra le band che curo (e qui vien fuori
la parte “paraculo”), ma non mi sentirei di sceglierne una o due tra loro. Probabilmente
potrei citare i Veivecura, per il semplice fatto ch’è una delle band che seguo
da più tempo, che ho visto crescere e raccogliere sempre più consensi, ma anche
per la particolarità del loro spettacolo, che si distacca dalla “classica”
formazione. Anche nella cernita fuori dal mio roster la scelta è assai
complicata. Con tantissimi artisti con cui ho avuto il piacere di collaborare
c’è innanzitutto una grande e lunga amicizia: Dimartino, Colapesce, Cesare
Basile, Mauro Ermanno Giovanardi, Zen Circus, Paolo Benvegnù… sono tutti
carissimi amici e artisti che stimo. E la lista è ancora lunga. Direi ch’è per
me impossibile fare una classifica di preferenze.
Che cosa manca secondo te alla scena italiana per avere più
importanza a livello europeo?
Non
è una risposta semplice da dare. Molte band italiane decidono di cantare in
inglese, chi perché ritiene la lingua più vicina ai propri ascolti e al genere
proposto, o perché non vuole limitarsi ai confini nostrani. Il problema è che
in molti casi adottano un inglese a dir poco imperfetto. Giù dal palco non
sarebbero in grado di intrattenere una vera conversazione in inglese. E ciò li
rende poco credibili all’estero. Questo è un problema di noi italiani, con uno
studio scolastico della lingua assai scadente, i film stranieri non in lingua
originale (come invece succede in molti paesi), cosa che aiuterebbe non poco la
dimestichezza con la lingua, ed altre dinamiche. A ciò si aggiunge, in molti
casi, la competitività, il proprio background musicale, l’approccio allo
strumento, la dedizione alla musica al 100%. Lavoro con una trentina di artisti
stranieri. E devo riconoscere che messi su una bilancia, una band italiana ed
una inglese o tedesca o svedese, a parità (ad esempio) di età, di cachet, di
attività musicale, beh, a noi italiani ci “fanno le scarpe”, per scrittura,
ricerca delle melodie, atteggiamento sul palco, cura del suono, approccio allo
strumento. Ovviamente, parlo in linee assai generali. Le eccezioni ci sono
sempre.
Grazie mille Paolo!