Killing Cartisano, all’anagrafe Roberta Cartisano, è una polistrumentista, songwriter e producer. Suona uno psycho-folk carico di pathos che non può che conquistare al primo ascolto. Abbiamo avuto il piacere di scambiare qualche parola con lei.
Ciao Roberta! Raccontaci un po’ di te: Da dove vieni? Quando è nata la tua passione per la musica?
Sono calabrese. La mia famiglia vive a Reggio Calabria dove sono cresciuta musicalmente in un ambiente familiare che mi ha reso musicista senza dover scegliere. Ho una nonna pianista. Mi racconta sempre di quando durante la Seconda Guerra Mondiale suonava la fisarmonica per la sua gente. Ai tempi erano tutti sfollati. La musica aiutava a non pensare. Ancora oggi mi ripete che ‘La musica è vita’. Ho iniziato a scrivere le prime canzoni alle elementari mentre studiavo pianoforte e da lì non mi sono più fermata. Il basso elettrico e lo studio dello strumento sono arrivati invece grazie a mio fratello bassista. Come la produzione artistica e gli arrangiamenti. Producevamo musica su un multitraccia quattro piste a cassetta. Ci divertivamo come i pazzi. La nostra stanza era un delirio fra microfoni, chitarre vintage, bassi, organo farfisa e una korg m1. Suonavamo sui vinili di mio padre grande amante di musica e di impianti Hi Fi d’epoca. Grazie a mio padre ho avuto la fortuna di crescere ascoltando Alan Parson, Pink Floyd, Doors, Electric Light Orchestra, Gershwin e altro ancora.
Com’è nato il nome Killing Cartisano?
Qualche anno fa ho subito un furto. Mi hanno rubato 4 anni di preproduzione del mio terzo disco in italiano (come Roberta Cartisano). Disco pronto per essere registrato. Quando si è sparsa la voce tramite i social i fan a mia insaputa e su base volontaria hanno dato vita a un crowdfunding. In una settimana mi hanno permesso di dotarmi nuovamente dell’attrezzatura per tornare al lavoro nel mio studio. Da un evento spiacevole è nata troppa bellezza. Non riuscivo più a tornare su quelle canzoni. Questo nuovo disco mi è scoppiato fra le mani. In quel periodo ho iniziato a postare foto con questo strano hashtag #killingcartisano senza farmi troppo domande. Mi sentivo parte attiva di un’energia incredibile. Come se stessi transitando verso una nuova esistenza. Nella musica come nella vita. E così che ho ucciso la Cartisano precedente. Ho solo seguito il flusso.
Hai abbandonato definitivamente il tuo progetto in italiano? Come mai hai deciso di “reincarnarti” in KC?
Giornalisti di un certo spessore quando hanno saputo che ero diventata KC hanno reagito scrivendomi frasi del tipo ‘Che Peccato! Sono rari quelli che sanno scrivere bene in italiano!’. Sono attestati di stima importanti. Arrivati dopo anni in cui avevo deciso di scomparire. In realtà non ho mai smesso di scrivere in italiano. Scrivo e compongo musica tutti i giorni, al di là della lingua e delle logiche discografiche. Canzoni come colonne sonore. Oggi sono concentrata sulla mia carriera in lingua inglese ma spesso ci penso a quelle canzoni in italiano rimaste nel cassetto dopo il furto. Se dovessi tornare a cantare nella mia lingua lo farei sempre come Killing Cartisano ma seguendo un percorso discografico diverso. Una formula alla Joni Mitchell – Mingus. Dischi da cofirmare in copertina con un arrangiatore orchestrale raffinato ma dall’anima punk che provenga magari dal mondo dei fiati. Vedremo. Al momento non so cosa dire. La ‘reincarnazione‘ in KC è stato un processo del tutto naturale. Il furto ha solo accelerato un cambiamento che era già in atto. In quel periodo avevo ribaltato la mia vita. Ho abbandonato la metropoli, ho fondato una Casale per Artisti in Umbria dove vivo, lavoro nel mio studio come produttrice musicale e ospito artisti, scrittori e musicisti da tutto il mondo. Ho creato la mia piccola San Francisco in Italia. Ed è qui che è nata KC, fra gli ulivi e con la California nel cuore. Lavoro come musicista dall’età di 16 anni. Non mi sono mai fermata. Negli ultimi 15 anni ho premuto troppo l’acceleratore arrivando a ignorare anche il dolore provato a causa di problemi personali. Avevo bisogno di una pausa. Di respirare. Di un taglio netto con il passato fino alla decisione di ‘uccidermi’ e rinascere in altre parti del mondo dove non avevo nessun precedente discografico come solista. Volevo fidarmi solo della mia musica. Anzi della musica e tornare a metterla al centro di tutto dopo anni in cui ho rischiato di perderne il senso e la purezza a causa di situazioni che mi avevano saturata.
Parlaci della tua esperienza a San Francisco: è stata un punto di svolta per la tua carriera?
A San Francisco se sei una donna musicista di esperienza sei ancora più rispettata; in Italia se pubblichi un primo disco a 30 anni ti dicono di lasciar perdere perché sei già ‘vecchia’. Oltre il sessismo riscontrato dal vivo. Capita che il fonico non ti fa neanche parlare perché è sicuro che in quanto donna non ci capisci niente di suoni. Sono forte abbastanza per gestire queste situazioni con educazione e professionalità, ma se capita a una ragazzina inesperta non è il massimo. Questo a San Francisco non esiste. Inoltre se suoni fai parte di una grande famiglia. Gli amici musicisti ti invitano ai loro concerti perché in apertura ci sarà un musicista strepitoso. Supportano più l’open act che se stessi. San Francisco mi ha reso ancora più outsider. Mi ha spinto ad abbattere le ultime sovrastrutture rimaste. Oggi gestisco il mio lavoro con maggiore serenità. Non ho alcun interesse a ricoprire un ruolo nella società. Ho capito che la bellezza non ha bisogno di riconoscimenti. Che l’arte non ha niente a che vedere con il successo.
VOL. 1 – un album dove il rock dinamico viene a contatto con il folk americano. Com’è stato produrre questo album con produttore come George S. Rosenthal?
Scrivendo tutti gli arrangiamenti, dalle batterie agli archi fino ai pre-mix e suonando diversi quasi tutti gli strumenti, ho sempre avuto un controllo maniacale delle mie produzioni. Improvvisamente ho capito che stavo facendo uno dei lavori più belli del mondo, ma avevo disimparato a giocare, perché l’arte è gioco. E nella musica non si può sempre giocare da soli, prima o poi diventa alienante. Per la prima volta ho sentito l’esigenza di delegare. Finita la pre-produzione in solitudine, ho poi lasciato tutto nelle mani di George. Senza alcuna esitazione. George è anche un amico. E oltre ad essere un produttore di talento, è anche un grande musicista dotato di un’empatia fuori dal comune. KC è una rocker del sud Europa follemente innamorata della West Coast. George ha interiorizzato il mio mondo fino a farlo suo. Ha potenziato il suono che avevo in testa. Ha lavorato per tirare fuori tutto il rock che ho dentro senza perdere di vista la mia italianità. Che per lui è sempre stato un valore aggiunto. Come il mio accento. KC Vol. 1 porta la firma di entrambi nella produzione. È il nostro disco. Dove il Mediterraneo che mi scorre nelle vene incontra la Baia di San Francisco.
Hai viaggiato molto durante la tua carriera; è difficile riuscire a mantenere la tua identità italiana all’estero, cantando in inglese?
No. Anzi. L’italianità è il mio tratto distintivo. Il mio punto di forza.
Raccontaci un po’ della tua scelta di unirti a Soundreef.
Con KC lavoro in giro per l’Europa. Passaggi in BBC, festival, tour. Sono passata a Soundreef perché necessitavo di una la gestione del mio repertorio all’estero più smart, dinamica e trasparente. Il dato incredibile è la velocità di risposta da parte vostra in caso di richiesta di assistenza. Di solito perdevo ore al telefono; Soundreef invece rende tutto molto più semplice, diretto, piacevole…
Qualche consiglio a chi vuole fare musica in inglese?
Di non avere paura. Just do it.
Grazie mille Roberta e in bocca al lupo!