Økapi è l’emblema del compositore post-moderno: un’affascinante figura a metà tra il producer di musica elettronica, il filosofo e l’archeologo musicale. Essendo iscritto a Soundreef, abbiamo avuto il piacere di incontrarlo e di scambiare qualche parola con lui. Questo è quel che ne è venuto fuori.
Ciao Filippo, è un piacere averti qui. Innanzitutto, per chi non si sia mai trovato nelle orecchie il sound di Økapi, raccontiamo chi sei? Come e quando nasce il progetto?
Forse sono musicista da sempre. Da piccolo, in Francia (la mia terra nativa), mi avevano iscritto al conservatorio, ma vivevo tutto ciò come un’insopportabile costrizione. L’Økapi musicista plunderfonico nasce a metà degli anni ’90 per pura ricerca personale, senza cioè nessuna intenzione di creare qualcosa per un pubblico. Comporre era all’epoca (e lo è tuttora) una passione molto intima. Non è molto elegante descriverlo così, ma la musica è un po’ la mia barca in miniatura costruita pazientemente nella bottiglia. Sono sempre stato affascinato dai plagiasti sonori (sound-collagisti anche definiti “plunderfonici”), e dj radicali di quegli anni. Quando ho percepito che potevo destrutturare ciò che ascoltavo in migliaia di frammenti per riassemblarli in qualcosa di inaudito che mi piaceva di più, ho trasformato la passione in un esercizio quotidiano. Ritagliare suoni è diventato da passatempo qualcosa di metodico e quasi ossessivo.
Sono stati alcuni amici a convincermi a divulgare i miei primi lavori. Sono sempre stato un timido promotore della mia “arte”….
“Pardonne-moi, Olivier! 16 oiseaux pour Olivier Messiaen”, il tuo nuovo album viene descritto come una parabola plunderfonica attraverso l’immaginario del compositore francese. Di che si tratta?
Adoro la musica di Olivier Messiaen, un po’ per la sua scrittura matematica e ermetica, un po’ per questo suo misticismo, nonostante tutto ciò non mi assomigli molto. Trovo le sue composizioni emotivamente implose e molto mentali. Al contrario in ciò che realizzo io cerco sistematicamente di raggiungere un’idea sentimentale quasi cinematica. Così dopo avere ritagliato l’intera sua discografia, soprattutto partendo dai “cataloghi di uccelli”, ho provato a reinventare un progetto audio/video sempre organico ma con strutture antitetiche, utilizzando cioè gli stessi concetti di partenza ma con delle aperture emotive e un gusto ironico che mi appartengono. Qualcuno ha definito questo progetto quasi-Pop.
Come hai interagito nell’album con la musica del compositore francese e come hai inserito gli interventi degli altri musicisti come Mike Cooper, Geoff Leigh e i visuals di Simone Memè?
Il progetto elettronico di taglia e cuci (di suoni musicali, versi di uccelli e non solo) e propriamente la fase compositiva sono stati realizzati in solitudine nell’arco di sei mesi, forse con la stessa lenta devozione meditativa di Olivier. In un secondo tempo ho avuto l’idea di arricchire il risultato con i suoni di due musicisti che amo. Ho chiesto a Mike e Geoff di integrarsi alla colonna sonora già composta, con semplici presenze e con lo strumento che preferivano…senza nessuna idea-guida preconcetta. Entrambi hanno perfettamente compreso il progetto riuscendo ad impreziosire ciò che avevo realizzato. Sono rimasto esterrefatto di come, a lavoro ultimato, i loro interventi fossero perfettamente a loro agio e mai invasivi o sopra le righe in mezzo alle mie migliaia di campioni. Lo stesso posso dire dell’incredibile lavoro di “visuals” creato da Simone per la performance dal vivo. Le sue immagini in movimento riescono ad evocare armoniosamente sia l’aspetto enciclopedico sia quello più decisamente astratto che avevo in mente durante tutto l’arco di sviluppo dell’opera.
Come è cambiata negli ultimi anni nell’arte del turntablism e del campionamento? E come è cambiato il tuo approccio? Se è cambiato…
Tutto è assolutamente mutato rispetto ai primi anni. L’arte del campionamento si è evoluta nel tempo in varie forme stilistiche, ma ciò che penso sia maggiormente cambiato in alcuni generi più radicali è l’idea programmatica che ruota intorno al concetto di “furto sonoro” per ridefinire l’approccio critico sull’idea di “proprietà intellettuale”.
La rete ha decisamente accelerato questo processo. La definizione “tutto è di tutti” è ormai culturalmente e silenziosamente assimilata e ha ridisegnato alcuni vecchi modelli economici del fare musica. Siamo in una fase di continua trasformazione, dove è difficile formulare un giudizio in termini di bene-male. Quel che è certo è che per molti musicisti di vecchia formazione ciò ha profondamente messo in crisi il modo di fare-distribuire-vendere la propria arte.
Io stesso ho ridefinito negli anni il mio approccio artistico e intellettuale. Laddove prima cercavo il conflitto dialettico intorno a certi temi, quale appunto il “ furto sonoro” e “l’appropriazione artistica a fini creativi”, ora sono sicuramente diventato più sensoriale e meno mentale. La mia musica ne è un riflesso.
Che idea hai dell’attuale scena musicale in Italia in generale? C’è un’interazione tra mainstream e le varie sottoculture?
Difficile rispondere. Voglio premettere, e non per una questione di snobismo, che non ho un quadro esauriente sulla situazione musicale italiana. L’impressione che ho è che ci sia sempre stato un reciproco “ammiccamento” tra la scena mainstream e quella più underground, sia per la fruizione sia per i codici stilistici. A me sembra che certi aspetti sonori più sperimentali (vedi il rumore, i drones etc.) siano entrati oggi, pur senza troppo clamore, nel bagaglio formale di tanta musica commerciale, mentre l’underground stia abbandonando i cliché più radicali per cercare di avvicinarsi a nuove platee…
Per quel che mi riguarda, esiste anche un terzo mondo, quello invisibile e spesso lontano dai media ufficiali; quello che si scova per caso nel web lontano da ogni forma di codificazione culturale, spesso in “free download” e ignorato dalla stampa cartacea. Nel mio caso questo mondo è sicuramente quello più stimolante.
Come mai hai scelto Soundreef?
Essendo un “ladro” di suoni creati da altri non ho mai sentito l’esigenza di tutelarmi. Ho sempre sperato in un’istituzione che tutelasse le opere partendo dalla valorizzazione dei processi creativi. Mi sono iscritto a Soundreef per capire se può esistere un altro modello capace di rispondere a queste premesse. La strada è quella giusta…