La sua è una di quelle storie bellissime, e nonostante abbia solo 16 anni, Malcky G ha già tanto da raccontare. Influenzato dal R&B e dalla black music, si esprime in chiave trap. Abbiamo avuto il piacere di scambiare due parole con lui.
Ciao Malcolm. Che storia la tua: figlio d’arte muovi ora i primi passi nella musica. Sei italo-americano cresciuto a Milano. Tuo padre è nativo del South Bronx, cugino di Africa Bambata, ha ballato con Micheal Jackson nel videoclip di Thriller, ex membro della Rocksteady Crew e Magnificent 4. Siamo curiosi. Che aria si respirava a casa tua da piccolo. Quanta musica c’era?
Ciao a tutti e grazie. Io sono cresciuto in una casa dove, ogni giorno, si ascoltava musica Black, R&B, hip-hop e reggae. Quindi per me è stato normale e naturale avere questo tipo di influenze.
Quanto hanno influito gli ascolti che facevi allora nella formazione del tuo stile, diverso dai ragazzi della tua era. È una nostra impressione o si riconoscono dei tratti più vicini all’old school?
Si certo è naturale, gli artisti che si ascoltavano maggiormente in casa sono quelli che più mi hanno influenzato nel mio percorso. Questi hanno anche fatto nascere in me la voglia e la necessità di fare musica. Tra quelli che più mi hanno influenzato non posso non citare: Notorius BIG, Micheal Jackson, 50 Cent.
Nonostante la giovane età hai già collaborato con artisti del calibro di Reggie Mills, J Stash, Mitch Mula, Sick Luke. Che cosa ti hanno lasciato queste collaborazioni? C’è qualche momento o episodio che ti ha colpito particolarmente?
Avendo avuto la fortuna di lavorare già con artisti americani certamente ho respirato un’aria diversa sia in studio che a livello personale. La cosa che continua a colpirmi è che con questi produttori americani entri in studio a mani vuote e con qualche idea ed esci dopo la sessione con già alcuni pezzi chiusi e pronti. Insomma, non si perde tempo con loro. Vi racconto un aneddoto divertente: una volta, mentre ero in studio con Reggie Mills, facevamo così tanto casino che hanno chiamato la polizia che poi si è fermata due ore in studio con noi.
Vai spesso a New York. Che aria si respira lì musicalmente?
A NY, così come in altre città statunitensi, si respira ovunque la cultura Hip Hop. Questo è uno dei motivi per i quali lì mi sento a casa, e anche perché vi è una mentalità diversa. Se trovi un artista a cui piaci, questo non ci mette molto a proporti una collaborazione. Diciamo che è un processo naturale e immediato. Qui in Italia non è così facile, anche perché entrano in gioco dinamiche differenti: chi conosci, con chi hai firmato e così via.
Quali sono i momenti in cui ti dedichi alla scrittura? Da cosa parti solitamente nella stesura di un brano?
Spesso, quando inizio a scrivere un pezzo, parto dal ritornello pensando a una parola che possa andar bene col flow della canzone e intorno a quello sviluppo tutto il brano. La maggior parte delle volte, quando scrivo, preferisco divertirmi – scrivendo di cose divertenti – facendo divertire gli altri. Prendo spunto spesso dalle cose che mi sono successe.
Come ti sembra la scena oggi in Italia?
Quando ho iniziato – nel 2015 – c’erano molti meno trapper mentre adeso molti ragazzi provano a far questo tipo di musica, da una parte questo è sicuramente positivo soprattutto per il mercato, ma dall’altra parte nessuno cerca di diversificarsi. Ad esempio, non mi piace che i big collaborino così raramente e difficilmente con ragazzi più giovani ed emergenti. Credo che sia anche per una sorta di paura, se un giovane spacca può togliere al big una fetta del mercato. Apprezzo invece molto chi cerca di aiutare ragazzi con potenziale.
Perché Soundreef?
Ho scelto Soundreef perché – essendo giovane – ho apprezzato la proposta tecnologica e innovativa che mi è stata proposta. L’approccio smart che ha la vostra piattaforma e l’analisi pressoché immediata dei dati è sicuramente un plus per un ragazzo come me.