Lo-Fi Poetry è tentare di essere grandi con qualche mezzo di fortuna, sicuri della propria ispirazione. E’ utilizzo ingenuo dei pedalini per chitarra, delle batterie elettroniche, delle assonanze e delle allitterazioni. Lo-Fi Poetry è un trio, in cui la voce recitante di Massimo Milan si appoggia scomoda alle chitarre di Federico Specht e Marco Matteazzi. Abbiamo avuto il piacere di scambiare qualche parola con loro.
Ciao ragazzi! “Lo-Fi Poetry è parola masticata sopra musica dritta, ma risonante al di fuori del cono uditivo”. Spiegateci questa definizione di voi stessi.
Ora come ora, nessuno di noi si vuole prendere la responsabilità di aver scritto questa frase. Forse possiamo dire che è stato Massi, il paroliere, al momento non presente. Tra cinque minuti sparirà dalla nostra bio, grazie comunque per la segnalazione!
Ascoltando il vostro EP “La mia band” si nota un sound che prende spunto dall’elettronica, dal grunge e anche un pizzico di indie. Ma la cosa più intrigante è che molti brani sono “parlati”, quasi delle poesie accompagnate da una musica. Qual è l’obiettivo principale di questa scelta?
L’obiettivo, o meglio, lo spunto che ha dato il LA al progetto stesso, è stato il desiderio di mettere della musica dritta sotto le parole masticate dal nostro poeta. Insomma, Massi ci fece leggere le sue liriche, un po’ intime un po’ pompose, al tempo stesso antiche e contemporanee, casalinghe ma a volte ermetiche, decadenti e sbavate, e ce ne innamorammo. Decidemmo di provare a sbatterle sopra un rock alternativo alla Afterhours. Poi negli anni sia la musica che i testi hanno preso direzioni diverse, e stiamo ancora esplorando e tentando di capire cosa fare da grandi.
Per molti artisti l’originalità è spesso preceduta da un lavoro di studio e, molte volte, di emulazione di altri artisti. Qual è il rapporto tra imparare, emulare ed essere originali?
È la seconda domanda impossibile su tre, neanche alla maturità abbiamo avuto così tanta sfiga! Proviamo partendo dal rubare a Picasso il suo famoso “gli artisti mediocri copiano, i grandi rubano”. Prima di scrivere questo EP, abbiamo deciso di passare dalla mediocrità al genio e abbiamo rubato a destra e a manca: “Gli umori di te”, dai Gomma e dai Giorgieness, “Lo spettacolo era orrendo”, dai Luminal, “Non svegliarmi questa mattina”, da John Frusciante e dai Funkadelic, “Quello che rimane”, dai Bachi da Pietra. “La mia band”, che sembra un plagio degli Stato Sociale, è invece farina del nostro sacco. Quello che si prende è uno spunto, un approccio, una sensazione cui non si era ancora pensato, che dà una luce nuova al tuo materiale. Poi ci sono influenze inconsce, che sorgono spontaneamente dopo anni di ascolto o di strimpellamento al modo di, e quelle nemmeno noi siamo in grado di riconoscerle. Ci penseranno i musicologi.
Uno sguardi alla scena musicale in Italia oggi. Molti dicono che la trap sia il prodotto di “giovani persi, senza contenuti”. Siete d’accordo? Prendereste mai spunto da questo genere?
No, non siamo d’accordo, la mancanza di contenuti è un contenuto, l’incomunicabilità è comunicazione. Eh sì, ci stiamo attrezzando per rubare i segreti ai trapper per il prossimo album! E non scherziamo.
Perché Soundreef?
Perché la SIAE non ci avrebbe mai fatto un’intervista così bella. E neanche Rockit!