Dopo una lunghissima pausa di riflessione tornano i Fluxus, e la curiosità è tanta visto che la storica band era una di quelle che nei Novanta dava filo da torcere a gente come Starfuckers e Massimo Volume. Abbiamo avuto il piacere di intervistarli.
Ciao ragazzi, Fluxus: “collettivo autodisorganizzato”. Come possiamo riassumere la vostra storia? Come siete nati nel 1991 e cosa è successo da lì ai primi anni del 2000?
Ciao! Ci siamo incontrati per la prima volta nel 1989 e ognuno di noi arrivava da altre e diverse esperienze musicali. Eravamo diversi e affini allo stesso tempo, volevamo suonare, nel modo migliore possibile, e unire le nostre diverse culture musicali, a partire dal rock degli anni 70, passando per la psichedelia, fino al punk e alla new wave, senza mai perdere di vista le origini comuni e l’amore per la musica italiana, in particolare per il cantautorato più impegnato e per la musica popolare e di protesta.
Gli anni 90 poi hanno rappresentato il culmine di un percorso iniziato almeno dieci anni prima, li abbiamo vissuti prima di tutto come ascoltatori, poi sperimentandoli come musicisti.
Dire cosa sia accaduto dopo gli anni 90 è molto difficile, sono accadute talmente tante cose che si rischierebbe di aprire un discorso lunghissimo di cui la musica occuperebbe una piccola parte. I modi di fare e di fruire l’arte sono comunque cambiati radicalmente, e questo ha prodotto degli effetti, come sempre negativi e positivi.
Soldi non ce ne sono mai stati, ed è indubbio che oggi ce ne siano ancora meno.
Forse ci sono stati dei momenti in cui si è creduto che anche in Italia fosse possibile dare ossigeno a realtà alternative. E’ accaduto qualcosa di simile, è durato molto poco e destato poco interesse.
Poi un lungo silenzio. Dopo 17 anni pubblicate un nuovo album. Cosa significa oggi per i Fluxus? Che significato ha per voi “Non si sa dove mettersi”? Cosa è successo in questi 17 anni?
Ci siamo fermati per un lungo tempo, è vero. Anche se nel frattempo ognuno di noi ha portato avanti altre esperienze e altre sperimentazioni. Il ritrovarsi a suonare insieme e decidere di fare un nuovo album è stato un processo naturale, tanto quanto è stato naturale il sospendere per un po’ le nostre attività. Fin dall’inizio e in tutti questi anni abbiamo sempre cercato di fare in modo che la musica fosse un esercizio artistico libero da qualsiasi costrizione, il senso di quello che facciamo, del modo in cui lo facciamo, delle parole che usiamo per raccontare ciò che ci circonda è il nostro primo obiettivo e scopo principale.
Nel 2005 abbiamo fatto un disco, che amiamo molto, ma non lo abbiamo mai pubblicato. Per vari motivi non si erano create le condizioni per la pubblicazione e proprio perché per noi quel disco è ricco di senso e di significato non volevamo pubblicarlo a tutti i costi, rischiando di mettere in crisi quello che per noi significa.
Questo per dire che noi esistiamo e suoniamo quando si creano le condizioni per poterlo fare e quando ciò che per noi ha senso diventa sensato anche per qualcun altro.
“Non si sa dove mettersi” esiste proprio perché un numero sufficiente di persone ha contribuito alla sua pubblicazione, impegnandosi e ritenendo che un nuovo disco dei Fluxus dovesse essere stampato. E’ stata un’operazione per noi importante, nel rispetto della nostra piena libertà.
I contenuti del disco sono in continuità con i temi e con il modo in cui abbiamo sempre raccontato la realtà che ci circonda. E’ un disco che mette in scena il caos e il disorientamento, sensazione nella quale siamo sprofondati tutti quanti e nella quale ci muoviamo quotidianamente, alla ricerca di un senso, di un cambiamento, di un nuovo orizzonte. E’ un disco che parla di “stasi” emotiva e sociale, di prese di posizione, di inganni e contraddizioni.
Come nasce un brano dei Fluxus?
Non abbiamo mai avuto una formula predefinita e crediamo di farlo nello stesso modo in cui viene fatto dalla maggior parte dei gruppi a noi simili.
Quasi sempre nasce tutto dalla musica, a cui poi vengono associati e adattati testi che sono stati scritti prima o scritti apposta per quel determinato brano.
L’unica cosa che possiamo dire è che ci riteniamo soddisfatti di un brano quando questo possiede tutte le caratteristiche che per noi deve avere un brano dei fluxus, che non riguardano il “genere”, ma il suono e l’autenticità.
Che tipo di live proporrete all’Area 51 Summer Festival? Che cosa dobbiamo aspettarci?
Faremo i brani dell’ultimo disco e una selezione di brani dei dischi precedenti. La selezione è determinata da fattori tecnici, dovuti al fatto che nella formazione attuale non è prevista la presenza di un basso. Ci siamo così orientati sulla scelta di quei brani che, anche se con sonorità diversa, riescono a essere valorizzati da questa nuova forma.
Che idea avete della scena musicale di oggi? Come è cambiata rispetto ai primi anni 90? Cosa vi piace e cosa vi fa arrabbiare delle nuove generazioni?
Sinceramente quello che ci fa arrabbiare non riguarda le nuove generazioni, che osserviamo con interesse, consapevoli di non avere molti strumenti per comprendere a pieno e criticare qualcosa che non viviamo in prima persona.
Noi continuiamo ad ascoltare quello che riteniamo più interessante e a noi più affine, all’interno del gruppo, come è sempre stato, con punti di vista e ascolti differenti.
Una cosa che è sicuramente accaduta è che a fronte di un aumento dei canali di utilizzo, promozione, ascolto e distribuzione della musica, c’è stata una contrazione di canali “autoriali” e un calo di interesse nei confronti di chi affronta la musica con un atteggiamento critico, curioso e alternativo.
Oggi è possibile ascoltare qualsiasi cosa e soddisfare qualsiasi ricerca.
E’ possibile muoversi in autonomia alla scoperta di tutti i gruppi che hanno pubblicato qualcosa sul web, di qualsiasi genere e di qualsiasi luogo nel mondo, insieme all’illusione che sul web si trovi davvero tutto, cosa vera fino a un certo punto.
Una volta i canali erano i programmi in radio, i negozi di dischi, le riviste musicali, alcuni programmi in tv, luoghi dove c’era qualcuno che si dedicava all’ascolto e alla scoperta, dando indicazioni, influenzando e occupandosi in modo professionale di quel lavoro enorme e necessario di ascolto e selezione.
In assenza di questo, quando l’intermediazione della critica diventa insignificante, si corre il rischio che a stabilire le regole di quello che va ascoltato o meno siano solo le grandi distribuzioni e il mercato mentre tutto il resto, pur rimanendo a disposizione, è relegato a una “nicchia” immutabile, poco coinvolgente e poco rappresentativa.
Non è una questione di sostanza, ascoltiamo e amiamo gruppi sconosciuti oggi come allora, ma è la dimensione del fenomeno a essere mutata, insieme a un’assenza completa di coraggio nel fare qualcosa che sia realmente poco in linea o accettabile, sia nella forma che nei contenuti, oltre che alla grande illusione della “fama”, che rincoglionisce un po’ tutti.
A cosa un autore a tu per tu con la propria musica non dovrebbe mai rinunciare?
Alla libertà.
Sembra banale ma è la cosa più difficile, ancora di più in un qualsiasi percorso artistico.
Essere liberi significa porsi sempre delle domande rispetto a quello che si sta facendo e ai motivi per cui lo si fa, cercando di esseri sinceri fino in fondo, prendendo in considerazione tutti i condizionamenti e raggiungendo così una piena consapevolezza.
Libertà significa davvero liberarsi di tutto, ognuno lo farà a proprio modo, ma quando le scelte non sono libere si sente.
Perché Soundreef?
Perché vogliamo essere più indipendenti possibile e ci sembra che Soundreef ci dia la possibilità di farlo. Non abbiamo ancora spostato tutti i nostri brani ma ce ne stiamo occupando e per noi è una prova e un esperimento, sperando che porti dei risultati migliori rispetto al passato. Dopodichè è una domanda che ci piace fare noi a voi sempre.. perchè Soundreef?
Perché abbiamo creduto che fosse importante fornire una scelta a tutti gli autori ed editori.
Grazie mille, ragazzi.