a cura di CTRL magazine
Raffaele Lucci, in arte Lucci, è un rapper, è stato tra i fondatori dei Brokenspeakers. Ha lavorato come cameriere, barman, direttore del personale di un locale sul lungotevere. Ha fatto il facchino. Ha lavorato nelle squadre di backline al concerto del primo maggio e a quelli di Laura Pausini al PalaLottomatica. Qualche anno dopo, su quello stesso palco ha suonato davanti a 8mila persone. Sa realizzare contropareti in cartongesso. Ha fatto l’allestitore museale. L’imbianchino. Ha lavorato all’Istituto Nazionale per la grafica. Ha aperto un negozio di spray per graffitari. Poi un ristorante in via Ostiense. Da poco è iniziato il suo anno sabbatico; che parte con un nuovo disco.
Partendo dalle origini: prima di Lucci, prima di fondare i Brokenspeakers, come ti sei avvicinato al rap?
Tramite mia sorella. Da ragazzina ascoltava Public Enemy, Wu-Tang Clan, De La Soul, quella scena lì; principalmente rap americano e qualcosa di francese. Ho iniziato rubandole cd e cassette, e copiandole. Il rap italiano – devo dire la verità – non mi faceva impazzire. Ho iniziato ad ascoltarlo molto dopo, più per capire cosa facevano i colleghi, per farmi un’idea della concorrenza.
E che idea ti sei fatto?
In Italia il rap è nato ed è cresciuto in un contesto ben determinato, quello dei centri sociali, delle posse. Ha sempre avuto una connotazione politica, ed è sempre stato molto attento ai contenuti. Oggi è diverso, certo, ma quello zoccolo duro è rimasto; è un po’ lo stesso pubblico che segue anche a me. Eppure a me continua a piacere il rap americano pieno di bestialità.
Una strana posizione.
Forse sì. Quel rap, quello che ascolto io tuttora, parla solo di droghe, di armi, di donne, è misogino, è abbastanza scemotto. Ma a me piace per quella componente un po’ cinematografica. E per un certo senso di libertà che ci si respira. In Italia invece si chiede aderenza alla realtà. Bisogna dare in pasto contenuti. E la tua vita dev’essere in linea con quei contenuti. Ma io ’sta cosa non la capisco. È come se a De Andrè avessero detto: Aoh, sei un cazzaro, perché hai scritto “Il bombarolo” e non hai mai messo una bomba!
Quando hai iniziato il rap era ancora, in fondo, una sottocultura con il suo codice. Oggi le cose sono molto diverse…
Già. Le sottoculture sono sparite. Forse sono rimasti un po’ di metallari, e qualche punk. Oggi i pischelli si ascoltano tutto, e tanto rap. Che ormai è definitivamente uscito dalla sua nicchia.
E cosa ci ha guadagnato?
L’apertura mentale. Questi ragazzini sono molto più aperti degli ascoltatori di rap di una volta. Due anni fa il manager di Calcutta mi ha chiamato e mi ha detto, Senti stiamo organizzando una serata a Villa Ada. Ti va di suonare prima di Calcutta?
Io all’inizio gli ho risposto: No! Ma io che cazzo c’entro con Calcutta? Ma lui ha insistito, Fidati, mi ha detto, il pubblico di Calcutta è molto aperto. Se quello che fai lo fai bene, sanno riconoscerlo. E aveva ragione. Ho suonato davanti a 4mila persone. Realisticamente, 600/700 persone erano lì per me; gli altri no. Però ascoltavano. E alla fine di ogni pezzo applaudivano. Una cosa del genere, nel pubblico delle nicchie e delle sottoculture, difficilmente accade.
Invece cosa ha perso il rap, uscendo dalla sua nicchia?
Qui ho una risposta che è solo personale: a me la nicchia piaceva. Quella cosa che da ragazzino ti faceva dire Vaffanculo, io non sono come voi. Quello, in classe mia, si sente Gigi D’Agostino…è un cojone. Io invece mi sento Wu-Tang in cuffia, e sono il più figo di tutti. E parlo di questa cosa solo con chi è come me.
Senza il rap cosa avresti fatto?
Io ho studiato Storia dell’arte e volevo insegnare. Però se ti spiego una cosa e non la capisci al volo, divento indisponente. Quindi la mia compagna – che invece insegna architettura – mi ha detto, Guarda: tu sei la tipica persona che deve stare lontano dall’insegnamento… Perché sei proprio stronzo.
Com’è la tua routine oggi, senza il lavoro al ristorante?
Ci sono dei giorni in cui mi sveglio, mi alleno, sono positivo e scrivo: scrivo canzoni, o anche racconti brevi. E ci sono giorni in cui mi sveglio, guardo il muro e dico: Oggi non c’ho proprio un cazzo da fa’. Insomma, mi ci devo ancora abituare.
Quale diritto vorresti avere, come autore?
Ti risponderei: di fare il cazzo che mi pare. Ma già lo faccio.